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punti di interesse di Lizzanello

Chiesa dell'Assunta

La Puglia, sin dalla prima metà del 1200, con il passaggio dei pellegrini, entrava in contatto con l’arte della Terra Santa. I numerosi pellegrini lasciavano, secondo le proprie capacità i segni del loro passaggio decorando le chiese con affreschi tutt’ora visibili. Terra caratterizzata dalla forte influenza culturale e artistica dei bizantini, il Salento conserverà sempre parte dei tratti della pittura orientale, fondendoli con le correnti che via via si imponevano nel panorama artistico nazionale e dando vita ad un’arte chiara e definita, legata al territorio e alle sue tradizioni, ma attenta anche alle tendenze che arrivavano da Napoli e dal centro Italia. Sull’esempio delle capitali, dove venivano erette nuove cattedrali e chiese, furono edificate in tutto il Salento edifici sacri di grandi o piccole dimensioni che dimostravano il forte legame fra il popolo e i signori verso la fede cattolica ed il papato. Le committenze erano di due tipi: da un lato i feudatari angioini che coglievano immediatamente le novità della Capitale e le riportavano nei propri feudi e dall’altra le richieste degli ordini monastici restavano legate a commissioni di scuola veneziana o bizantina . Il Salento rimase comunque terra di periferia e di conquiste per molti anni; tradizionalmente a cavallo tra Oriente ed Occidente era terra ambita da “amici” e minacciata da “nemici”. Solo con l’avvento dei d’Enghien, in particolare con la reggenza di Maria, Lecce e i dintorni tornarono a fiorire. Un oggetto di particolare interesse sfuggito fin ora all’attenzione, si trova nella chiesetta dell’Assunta a Merine: si tratta dell’affresco dell’abside principale venuto alla luce, per una casualità, solo a metà del XX secolo ma che con i recenti restauri sta recuperando la giusta importanza. La chiesetta è molto piccola e la sua struttura esterna è talmente semplice da sembrare un edificio civile, anche perché da essi ne è circondata, ma in epoche passate ha sicuramente svolto funzioni importanti nella vita del paese perché la presenza delle caditoie su tutti gli ingressi, fa collocare l’edificio nell’ambito delle “chiese fortificate”, ipotesi avvallata dalla presenza nello stesso paese di altre costruzioni simili, seppur adibite ad uso laico e privato . La Terra d’Otranto è stata da sempre considerata “la porta d’Italia” , sia nelle epoche di commercio con l’Adriatico, sia nei periodi di lotte con i popoli musulmani; soprattutto nel XI sec. il basso Salento si configurerà come linea di demarcazione netta fra Impero d’ Oriente e Impero d’Occidente. La crisi del regno bizantino metterà la penisola in balia del mare e di tutti i popoli che potevano attaccare. La pianta della chiesetta è rettangolare, ad aula unica; attualmente ha copertura con volte a stella completamente intonacate. Anticamente, la copertura era di canne e tegole , successivamente fu costruito un tetto in muratura e probabilmente fu affrescato come il resto della cappella. La copertura era dunque a capanna come altre chiese salentine coeve che presentano ancora le caratteristiche strutturali che a Merine sono state cancellate . La stessa struttura si può ammirare tutt’ora anche nella chiesa di Santo Stefano a Soleto, edificio simile a quello di Merine sia per le piccole dimensioni che per la copertura a capanna. Potremmo ipotizzare quindi anche a Merine una iniziale struttura architettonica simile alle precedenti, sostituita da una copertura più efficiente e più vicina alle tendenze architettoniche del momento . Dalla presenza di alcuni resti di pittura azzurra visibili dietro il baldacchino, si può supporre che la copertura fosse affrescata di blu, come un cielo stellato, ma non ne abbiamo certezza documentaria. Attualmente, nella parete destra sono presenti due nicchie in cui sono inserite alcune statue votive in cartapesta; altre due statue della stessa fattura si trovano in altrettante nicchie poste nella controfacciata. Le nicchie non risultano nelle relazioni al vescovo, forse perché sono di costruzione molto recente. Le statue presenti nella chiesa sono simulacri di S. Vito, S. Luigi, S. Lucia e S. Sebastiano; sono opere realizzate in cartapesta e in ottimo stato, probabilmente frutto di recenti restauri. La chiesa ha arredi e decorazioni molto semplici se si esclude la parete ad est: su di essa spicca, infatti, un monumentale altare in marmo di matrice barocca all’interno del quale, nell’abside, è venuto alla luce un magnifico affresco, coperto in passato da una tela dedicata all’Assunzione della Beata Vergine. Oggi si può vedere un altare in pietra con decorazioni barocche alle spalle del quale vi è un baldacchino coevo, ma i documenti arcivescovili ci raccontano che un tempo la chiesa aveva un altare in pietra situato in un’altra posizione rispetto a quella attuale. In cima alla decorazione marmorea compare uno stemma con tre palme e due stelle argentate che ne fa assegnare la committenza alla famiglia Palmieri, governatrice del paese per un lungo periodo . Le decorazioni del baldacchino sono di tipo floreale e vegetale, con puttini svolazzanti che incorniciavano presumibilmente la tela con l’immagine dell’Assunta. Ai lati ci sono due colonne che sorreggono l’impalcatura e danno un senso di stabilità all’opera. Ad ogni fusto vi è attorcigliato un ramo di alloro, simbolo di gloria, una decorazione molto semplice, ma altrettanto esplicativa. I rami hanno un colore differente rispetto alle colonne, probabilmente un tempo erano verdi e col tempo il colore è sbiadito. A circa due metri da terra, vi sono le statue color grigio dei due Santi protettori della città di Lecce: a destra S. Irene che, con una mano sorregge la città da lei protetta e con l’altra la palma del martirio; a sinistra vi è S. Oronzo con il bastone vescovile. Probabilmente la cappella era completamente affrescata, con le volte decorate d’azzurro, come altre chiesette sparse nel Salento. Sul lato sinistro è comparsa una “Madonna con Bambino” che sembra dipinta su uno strato d’intonaco successivo a quello dell’abside; è dunque più moderna e anche il tratto sembra meno preciso e meno esperto dell’affresco absidale. I tratti pittorici si mostrano infatti stereotipati e infantili non hanno niente dell’eleganza dei due santi dipinti nel catino; nulla toglie che sia la mano di un allievo o di un pittore minore al seguito della maestranza che lavorò nella chiesetta. La tela che copriva l’abside si trova tuttora nella chiesa, anche se è stata spostata dalla parete in cui si trovava per lasciar posto all’abside (Immagine 12). Il soggetto rappresentato è il momento dell’ “Assunzione al cielo della Vergine”. Nella scena sono presenti gli apostoli intorno al sepolcro di Maria che guardano stupefatti e spaventati l’ascesa al Cielo della Vergine. Questo è un tipico soggetto barocco, sia iconograficamente, sia stilisticamente; la scena è infatti ricca di rosei puttini seminascosti fra le nubi che accolgono e trasportano la Madonna. Tutta la scena è trattata con colori tendenti al marrone, al dorato e al grigio, tonalità che richiamano l’importanza del momento. Il primo riferimento alla tela si ha nel 1755 e si fa riferimento al legame che vi è fra l’intitolazione della cappella e la tela omonima ma non vi è una descrizione dettagliata dell’opera. Nei secoli successivi si farà ancora riferimento alla tela nelle varie relazioni dei parroci, ma senza particolare interesse all’opera. Di maggiore interesse e importanza storica e iconografica è invece un’abside con affreschi di chiara influenza angioina coperta dalla tela dell’Assunta. Tema dell’affresco è la “Crocifissione di Cristo” con Maria e S. Giovanni apostolo ai due lati e la Maddalena ai piedi della croce. Nella narrazione sono assenti i ladroni, come avviene in altri affreschi coevi, probabilmente per scelte stilistiche o per mancanza di spazi. Più in basso vi sono i ritratti di due santi: a sinistra S. Gregorio Magno e a destra S. Ludovico di Tolosa (Immagine 14). La Crocifissione merinese presenta uno sfondo blu scuro ed è inquadrata in un’architettura che segue le forme curve dell’abside concava. Gli astanti occupano lo spazio evidenziandosi in tutta la loro fisicità e umanità e mostrando tutta la disperazione nel momento più tragico della vita del Signore. La croce è protagonista della scena dividendola verticalmente in due parti uguali che accolgono le donne su un versante e l’uomo sull’altro. Tutti i protagonisti palesano lo sconforto e l’abbattimento, mentre il “Cristo patiens” ha gli occhi chiusi e non presenta evidenti segni di sofferenza corporea, se si eccettua il sangue che sgorga dal costato. Il colorito di Gesù è spento e contrasta con quello roseo delle altre figure; Cristo è scuro di carnagione e con barba e capelli lunghi e biondi che cadendo contornano il viso già di per sé scarno. Gli occhi sono chiusi e su di essi spiccano le vene che segnano lunghi solchi scuri sulla pelle esangue. Il corpo è abbandonato su se stesso, cadente verso il basso per la forza di gravità, non è statico e nella linea sinuosa si intravede la lezione giottesca dei grandi crocifissi. In cima alla croce sventola il cartiglio con il nome di Gesù; è da notare che nonostante il Salento si trovasse in una zona a tradizione quasi totalmente bizantina, la scritta riportata è in lingua latina; si può pensare dunque che il pittore fosse avvezzo a parlare il latino o il volgare e che comunque non parlasse il greco quotidianamente. Proseguendo lo studio della scena, verso il basso nella parte sinistra dell’abside si incontrano le pie donne che sorreggono la Madonna; il gruppo presenta ancora la staticità dell’arte bizantina, ma la pittura, la linea e i caratteri fisionomici dei personaggi sono chiaramente occidentali. L’abbigliamento è di tipo occidentale; semplice ma elegante, anche se le figure non sembrano essere vestite secondo la moda quattrocentesca. Incuriosisce la presenza del velo sul capo della Maddalena; all’epoca infatti la rappresentazione canonica presentava le donne sposate con il velo, mentre le prostitute erano rappresentate con i capelli lunghi e sciolti, poiché la chioma era simbolo di seduzione femminile e del “maligno” rappresentato dalle donne. L’autore ha voluto, in certo senso assolvere la donna lasciando però sfuggire, sotto il mantello la presenza ingombrante della lunga capigliatura dorata. Gli sguardi delle donne non sono rivolti né verso lo spettatore né verso il vuoto, come ci si sarebbe aspettato da un pittore bizantineggiante, ma seguono con attenzione e preoccupazione Maria che mostra i cedimenti del dolore. La donna più in alto guarda verso il basso mentre l’altra guarda a sinistra e gli sguardi sono coerenti con le posizioni dei corpi. S. Giovanni è seduto su una roccia, quasi accovacciato e si regge la testa con la mano destra in un atteggiamento pensieroso e triste. La roccia mostra ancora i segni della tradizione (la bidimensionalità) ma anche il tentativo di dare un effetto naturale alla scena, facendo affidamento anche sulle ombre delle pieghe delle vesti e sui ciuffi di erba che spuntano fra la roccia. La parte inferiore della scena è parzialmente rovinata, ma ci consente comunque di ammirare quasi totalmente la figura della Maddalena. La donna è inginocchiata ai piedi del Crocifisso formando visivamente con quest’ultimo una piramide, fulcro della scena. I colori, attualmente tornati alle ipotetiche tonalità originali dopo un accurato restauro, sono gli stessi usati nel tempio galatinese; i toni forti e decisi, con netti contrasti, non lasciano spazi alle sfumature. Le forme, al contrario, sono segnate da linee di colore più scuro che rendono con accuratezza le pieghe dei corpi. Di particolare interesse sono i nimbi di tutte le figure: la patina dorata che inizialmente arricchiva la scena è caduta, ma restano i segni di un lavoro accurato e rifinito. Avvicinandosi all’abside si notano i solchi, un tempo riempiti dalle lamine punzonate, labile testimonianza dell'originaria delicatezza dell’opera. Lo sfondo dell’immagine è blu cobalto, quasi nero e ammanta i personaggi nell’abbraccio architettonico dell’abside. Sotto la Crocifissione troviamo le figure dei due santi; gli sfondi sono uno blu scuro e l’altro rosso mattone e le figure campeggiano in uno spazio ben definito da una cornice rettangolare che separa nettamente i ritratti dalla scena superiore. A sinistra, in corrispondenza delle pie donne, troviamo il ritratto di S. Gregorio Magno. Il soggetto è facilmente attribuibile, sia per la presenza del titulus , sia per le prerogative iconografiche che lo caratterizzano. La tradizione iconografica suole rappresentarlo in trono , con la presenza dello Spirito Santo sotto forma di colomba bianca che gli parla nell’orecchio a simboleggiare l’ispirazione divina nelle sue opere. Le vesti con cui è rappresentato solitamente sono quelle pontificie, con la tiara papale e la croce pastorale . Il S. Gregorio merinese presenta tutte le caratteristiche della tradizione: indossa uno splendida tunica rossa finemente ricamata, guanti bianchi, l’anello papale e non manca il saio benedettino, simbolo dell’ordine a cui apparteneva in origine. Inoltre nello sfondo, poco sopra il nome, c’è una piccola colomba nimbata, simbolo dello Spirito Santo. Sono presenti anche i simboli papali, come il triregno e la croce che il santo sostiene con la mano sinistra, mentre con la destra accenna ad un saluto benedicente. A riprova della santità, la figura ha il capo nimbato che doveva essere rivestito da una patina dorata, ma che come le precedenti aureole si è perso con il tempo. L’identità dell'altro santo si riconosce chiaramente: si tratta di S. Ludovico di Tolosa, fratello de re di Napoli Roberto d'Angiò; per questo motivo la consuetudine lo presenta con un manto riccamente decorato con i gigli angioini. L’iconografia lo rappresenta come un vescovo giovanissimo con il saio francescano sotto il manto gigliato, la mitra e il bastone vescovile; la corona reale e lo scettro sono ai piedi, a simboleggiare la sua rinuncia al trono del Regno di Napoli . Entrambi i santi indossano guanti bianchi ornati dal medesimo decoro lineare eseguito in rosso che è presente anche nella mitra di S. Ludovico; lo stesso decoro si ritrova nella figura di S. Ludovico da Tolosa nella basilica di S. Caterina di Galatina, anche se non è posto sui guanti, ma come fermaglio del mantello. Non è chiaro perché l’autore avesse scelto proprio s. Gregorio fra tutti i padri della Chiesa che generalmente vengono raffigurati insieme come si può vedere a Soleto e a Galatina ; la scelta di rappresentare i padri della chiesa si può inserire in una tradizione di origine bizantina, sottolineando ancora una volta il legame forte che rimaneva fra la terra d’Otranto e la tradizione orientale, nonostante gli impulsi di tipo occidentale e moderno che arrivavano dal resto d’Italia. Si Fra i due santi vi è una cesura dovuta alla caduta del colore che ha fatto perdere tutta la parte centrale della striscia; non si quindi può definire cosa dividesse le due immagini, anche se si vede una leggera rientranza parietale. Citando la chiesa di S. Caterina di Galatina sorge però un problema di attribuzione; è certo che nel tempio di Maria d’Enghien non lavorò un solo pittore, ne tanto meno una sola corrente, ma che convivevano tre scuole artistiche ben definite: la scuola toscana, la tendenza napoletana e pittori di tradizione bizantineggiante; sicuramente accanto ai pittori stranieri lavorarono, inoltre, anche allievi di origine salentina . Se appaiono definite le scuole pittoriche di Galatina, incerto è invece il sostrato stilistico della chiesa di Merine; la presenza del santo francescano nella zona più in vista dell’edificio ci dà la certezza assoluta che l’affresco sia di committenza angioina, visto l’enorme sviluppo che quest’immagine ebbe durante il regno. Non è però nota la maestranza che vi operò. Con molta probabilità, il pittore merinese può essere inserito nel lungo elenco di artisti che parteciparono alla decorazione di Santa Caterina a Galatina e con la stessa probabilità si può considerare tra gli artisti autoctoni che entrarono in contatto con le correnti decorative italiane e ne acquisirono le linee principali, pur rimanendo legati anche alla tradizione bizantina. Il cantiere orsiniano fu punto d’incontro di numerosi artisti che lavoravano e lavorarono in ambito salentino: esempi simili di pittura si trovano sparse per tutto il Salento, da Soleto a Nardò, passando per Veglie e non dimenticando la chiesetta di Merine da noi presa in esame. Dare un nome preciso al decoratore dell’Assunta è arduo, (si pensi che non si hanno certezze attributive neppure degli affreschi galatinesi) ma si può stabilire una linea di tendenza a cui fece riferimento il pittore. Una forte somiglianza fra i tratti dell’affresco merinese e le opere galatinesi si palesa nel confronto dei volti e delle forme corporee. Proprio nel raffronto sistematico di alcuni esempi galatinesi che si può arrivare a stabilire una linea di continuità fra le due opere, a sostegno dell’ipotesi che l’autore merinese abbia lavorato nel cantiere orsiniano. Come già detto, la basilica di Maria d’Enghien fu una fucina di artisti ed è molto probabile che artisti salentini che parteciparono al cantiere come allievi, in un secondo momento si siano messi in proprio lavorando autonomamente per commissioni sorte in realtà minori. Altra consapevolezza acquisita nel corso del lavoro è la necessità da parte dell’uomo di conservare adeguatamente ciò che la storia e la tradizione gli affida, per permettere agli attuali e futuri fruitori di godere delle bellezze delle opere e di imparare da esse, cercando di preservarne le peculiarità originarie.