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La tutela del turismo nella giurisprudenza costituzionale

di Fabio Frisenda
Università degli Studi “Roma Tre”
Dipartimento di Giurisprudenza
Corso di Laurea in Giurisprudenza
Tesi di Laurea in Diritto Costituzionale
Relatore: Chiar.mo Prof. Alfonso Celotto
Anno Accademico 2015 - 2016

2.8 - La potestà regionale “piena” in materia turistica

Alla luce dell’analisi svolta, l’esercizio di una potestà legislativa “piena” (nella prospettiva e nei limiti che si è avuto modo di evidenziare) da parte delle Regioni in materia di turismo, presenta, quindi, almeno un doppio ordine di problemi riconducibili, da un lato, al suo passaggio dal “vecchio” al nuovo regime di competenze previsto dalla riforma costituzionale del 2001 e, dall’altro, al difficile contemperamento delle esigenze di salvaguardia dei nuovi spazi di autonomia regionale, determinati da tale riforma, con quelle di tutela degli interessi “unitari” del settore, da affidare essenzialmente alla disciplina statale, nel rispetto del riparto dei poteri normativi costituzionalmente previsti ed idonei ad incidere, a vario titolo, sulla disciplina del settore turistico.

Il primo ordine di criticità riguarda, in particolare, le difficoltà legate alla transizione dal vecchio al nuovo ordinamento, le quali sembrano assumere, anche alla luce degli sviluppi normativi e giurisprudenziali che ne sono seguiti, non solo una valenza meramente contingente, legata, come ovvio, alla peculiar fase di passaggio da una disciplina determinata dal “concorso” della legislazione statale (di principio) e regionale (di dettaglio) ad una disciplina affidata “pienamente” (ma non “esclusivamente”) alla potestà regionale, ma anche la natura di una sorta di “engramma originario”, destinato a condizionare l’esercizio delle competenze normative di Stato e Regioni rilevanti per il settore turistico anche dopo la fase iniziale di applicazione della nuova disciplina del Titolo V, Parte II Cost., soprattutto per il modo in cui tali difficoltà sono state, da un lato, affrontate e, per così dire, “superate” ab origine dal legislatore statale, prima ancora che da quello regionale, e, dall’altro, inquadrate e “risolte” nel diritto vivente.

Il secondo ordine di problemi riguarda, invece, il rapporto tra la potestà “residuale” regionale in materia di turismo ed i vari titoli di intervento statale che possono intersecarne e condizionarne limiti e contenuti, facendo leva soprattutto sulla perdurante esigenza di garantire interessi lato sensu unitari, in taluni casi anche in deroga allo stesso riparto di competenze legislative “per materie”114, e finendo col contrapporre, fatalmente, siffatto riparto con obiettivi ed interessi che trascendono le capacità operative e gli obiettivi di interesse locale. In tale prospettiva, infatti, gli interessi unitari, ovvero quelli uniformi per l’intera collettività nazionale e non frazionabili localmente, sembrano potersi imporre, di volta in volta, a scapito della sfera di autonomia regionale, non tanto perché costituzionalmente (più o meno direttamente) tutelati, quanto perché ritenuti “tecnicamente” prevalenti rispetto sia agli interessi regionali in gioco, sia (implicitamente) allo stesso riparto di competenze astrattamente previsto, sulla base di valutazioni che potrebbero risultare, tuttavia, meramente contingenti, tutt’altro che oggettive e, soprattutto, difficilmente riconducibili a parametri giustiziabili.

La tutela di istanze unitarie da parte dello Stato, peraltro, pur risolvendosi, fondamentalmente, nella determinazione di specifici indirizzi, standard e criteri uniformi (in ordine alla qualità dei servizi offerti, alle tipologie delle attività svolte ed alle relative classificazioni, ai requisiti richiesti per svolgere determinate attività, etc.), sembra poter generare non solo una disciplina di livello statale di singoli (e ben determinati) “interessi nazionali” connessi al settore turistico, ma anche una “precarizzazione” permanente dello stesso riparto di competenze tra livelli di governo, derivante dalla più o meno grande rilevanza (rectius: portata) attribuita a siffatti interessi alla luce della incisività e del modo con cui vengono di volta in volta invocati a livello centrale, e poi legittimati, in ultima istanza, in sede giurisdizionale.

L’individuazione e la disciplina degli interessi unitari, infatti, finisce col risolversi, inevitabilmente, in una incerta ed ambigua permeabilità della competenza regionale in materia di turismo ad interventi normativi di livello statale, ovvero in una sorta di “occasionale”, ma sostanzialmente indefinita, “limitazione dall’interno” (potenzialmente anche molto ampia) della materia stessa, così come mostrato, tra l’altro, dalle recenti vicende relative all’approvazione del c.d. “Codice del turismo” ed alla declaratoria di incostituzionalità (parziale) che ne è seguita.

A fronte di tali snodi problematici, la mancanza sia di un testo costituzionale sufficientemente chiaro e netto sotto il profilo del riparto delle competenze normative (soprattutto se considerato alla luce dei rapporti tra tale riparto ed i sottostanti interessi da tutelare ai differenti livelli di governo), sia di una effettiva e condivisa volontà politico-amministrativa di “regionalizzare” in modo sostanziale e senza riserve la disciplina del turismo (così come ci si sarebbe potuto aspettare all’indomani della riforma costituzionale del 2001), ha finito col costringere la Corte costituzionale ad assumere, per molti versi necessariamente, una funzione, per così dire, di razionalizzazione in progress del sistema, ovvero, più specificamente, di perdurante ridefinizione dei confini del “turismo” inteso come materia, e dei suoi vari ambiti, nonché dei necessari punti di equilibrio tra principi ed istanze di volta in volta confliggenti (autonomia regionale vs. esigenze unitarie del comparto turistico, continuità vs. coerenza dell’intero sistema, riparto di competenze “materiali” vs. tutela di interessi “prevalenti”, etc.) e, comunque, difficilmente bilanciabili in maniera stabile ed univoca sulla sola base delle scelte operate dal legislatore costituzionale.

A questo specifico proposito ci si limita a dire che tale complessa questione, non potendo essere affidata alle sole scelte operate dal legislatore statale tout court (pur essendo chiamato quest’ultimo a tutelare, sul piano legislativo, l’unità giuridica ed economica dell’ordinamento), potrebbe essere ricondotta, verosimilmente, nell’alveo di una ordinaria e stabile “fisiologia istituzionale” ove fossero garantite, in particolare, adeguate sedi e strumenti di confronto e di raccordo politico-istituzionale tra Stato e Regioni, mentre la debolezza, l’ambiguità ed, in taluni casi, l’assenza di efficaci istituti di collegamento o, se si vuole, di collaborazione tra livelli di governo finisce, in ultima istanza, col richiedere una (“patologica”) supplenza della Corte costituzionale volta a garantire il coerente soddisfacimento degli interessi in gioco ed il necessario contemperamento (costituzionalmente vincolato) delle eterogenee esigenze e finalità ascrivibili alla disciplina del settore turistico.

La Consulta, infatti, alla luce del contesto problematico sinora considerato, ha dovuto fare i conti con l’irrinunciabile esigenza di garantire la coerenza e la funzionalità complessive, oltre che la legittimità in senso stretto, della disciplina in questione sin dalla fase iniziale di applicazione del mutato assetto costituzionale, muovendo dal riscontro che tale assetto attribuisce alle Regioni una competenza in materia di turismo c.d. “residuale” e non più concorrente (ergo non più soggetta, come livello ultimo e più incisivo, ai principi disciplinati con legge statale), senza offrire né una chiara e netta definizione degli ambiti di competenza legislativa che possono incidere, complessivamente, sulla disciplina del turismo, né sufficienti “strumenti” di raccordo tra livelli di governo. Senza contare, poi, l’“eredità” di una articolata e consolidate disciplina del settore adottata in vigenza del precedente impianto costituzionale e segnata da una normazione di livello statale che era risultata assai poco rispettosa, come si è avuto modo di rilevare, delle attribuzioni regionali formalmente (o, forse meglio, “teoricamente”) previste prima delle modifiche introdotte dalla legge cost. n. 3/01. Su tali presupposti è stata “inaugurata” la (ormai) copiosa giurisprudenza costituzionale in tema di turismo119, che ha fatto seguito alla riforma del Titolo V, Parte II Cost., con la controversa sentenza n. 197 del 2003, peraltro preceduta da due decisioni ritenute dalla Corte, nonostante le apparenze, non coinvolgenti il settore.

In questa pronuncia, il Giudice delle leggi, pur dichiarando inammissibili le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto la legge n. 135/01 (divenuta centrale per la regolazione del comparto turistico), ovvero la disciplina che aveva sostituito quella contenuta nella legge quadro n. 217/83 sulla base dei (problematici) presupposti e delle modalità che si è già avuto modo di sottolineare, ha dovuto affrontare e mettere a fuoco taluni snodi fondamentali del passaggio al nuovo assetto di competenze normative ed al mutato regime di rapporti tra disciplina regionale e disciplina statale idonee ad incidere sul settore turistico.

Questa decisione, che è stata oggetto di aspre critiche in dottrina, se è vero che ha mostrato, in particolare, un inquadramento della disciplina de qua, per un verso, (inevitabilmente) “limitato”, essendo state rigettate le questioni perché sollevate essenzialmente sulla base di parametri solo formalmente vigenti al momento del giudizio, ma sostanzialmente “obsoleti” alla luce della fase di transizione al mutato assetto delle autonomie, e, per l’altro, controverso, non solo per l’esito cui ha condotto, ma anche perché non ha consentito di chiarire sufficientemente o, quantomeno, di affrontare adeguatamente talune questioni di fondo inerenti l’esercizio della potestà legislativa di Stato e Regioni (considerata, in particolare, in quella peculiare fase di transizione), è altresì vero che ha, comunque, offerto, in generale, un primo approccio alla nuova competenza regionale in materia di turismo, nonché alcuni riferimenti di carattere generale, dalle implicazioni tutt’altro che irrilevanti, che vanno ben al di là sia del caso in esame, sia della peculiare fase iniziale di applicazione del nuovo regime di competenze introdotto dalla riforma del Titolo V del 2001.

In tale occasione, infatti, la Corte, chiamata a giudicare la legge n. 135/01 principalmente sotto il profilo del conferimento al Presidente del Consiglio dei Ministri del potere di adottare un regolamento con cui disciplinare i principi fondamentali della materia, ha avuto modo di inquadrare, sia pure incidentalmente, la natura e la legittimazione dell’intervento normativo dello Stato, da un lato, e delle Regioni, dall’altro, in questo settore, nella fase di passaggio dal “vecchio” al “nuovo” riparto di competenze normative, mettendo a fuoco talune coordinate fondamentali del problematico rapporto tra centro e periferia (in particolare, tra fonti, oltre che tra competenze statali e regionali), nonché il modo in cui poter pervenire ad una compiuta regionalizzazione della disciplina in materia di turismo maggiormente in linea con le nuove disposizioni costituzionali, ma, nello stesso tempo, senza pregiudicare le intrinseche esigenze di organizzazione e di funzionamento (rectius, di continuità della disciplina) del settore stesso.

Il Giudice delle leggi, in estrema sintesi, giunto, per l’appunto, ad una declaratoria di inammissibilità delle questioni di costituzionalità proposte da quattro Regioni (perché sottoposte al suo esame prima dell’entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, e quindi da risolvere «alla stregua delle previgenti disposizioni costituzionali invocate come parametri»), anziché, in ipotesi, di incostituzionalità della legge n. 135/01 (né per illegittimità sopravvenuta, né per lesione della sfera di competenza regionale120), così come ci si sarebbe potuto anche aspettare alla luce sia della formulazione originaria dell’art. 117 Cost., che di quella riformata (ovviamente sulla base di presupposti, almeno in parte, diversi), ha fatto sostanzialmente salva la disciplina statale impugnata, ivi compresa la controversa delega contenuta nell’art. 2, co. 4 della legge stessa (chiamata, tra l’altro, a determinare standard, requisiti, modalità di esercizio delle funzioni e criteri estremamente dettagliati, oltre che principi generali in senso stretto) ed esercitata, in concreto, solo dopo l’entrata in vigore della riforma costituzionale del 2001.

Lo stesso Giudice delle leggi, tuttavia, pur dichiarando inammissibile la questione, non ha mancato di rilevare, nello stesso tempo, come siffatta disciplina, non risultando illegittima, sulla base del principio di continuità dell’ordinamento, non infici né il ruolo costituzionale, né la potestà normative delle Regioni in materia di turismo, in quanto queste ultime «ben possono esercitare tutte quelle attribuzioni di cui ritengano di essere titolari, approvando una disciplina legislativa che può anche essere sostitutiva di quella statale».

La Corte, dunque, nonostante abbia prefigurato, sui presupposti appena richiamati, un assetto di rapporti tra fonti statali e regionali, oltre che tra competenze, non privo di aspetti problematici, a cominciare dalla natura e dale implicazioni riconducibili alla summenzionata “sostituzione”, e destinato, tra l’altro, a condizionare significativamente la futura evoluzione della disciplina stessa, ha, comunque, evidenziato come una possibile regionalizzazione della disciplina del turismo, al di là del fatto che le nuove prerogative regionali, sempre secondo il suo ragionamento (tutt’altro che pacifico o scontato), non sarebbero in alcun modo pregiudicate dalla legislazione statale già in vigore, debba essere affidata, sostanzialmente, all’iniziativa delle singole Regioni, ovvero ad un espresso intervento legislativo di livello regionale.

Un intervento che, di fatto, sarebbe chiamato ad innovare ed adeguare al nuovo assetto costituzionale la natura, oltre che il contenuto, della disciplina vigente “derogando” la normativa di derivazione statale, o, se si vuole, “abrogando” la stessa nei limiti della competenza territoriale propria di ogni legge regionale, e, comunque, determinando, in ultima istanza, una cessazione pro futuro (in cui si sostanzierebbe la summenzionata sostituzione) della vigenza delle norme statali solo nell’ambito regionale interessato e per i soli profili oggetto dell’intervento regionale stesso.

In questa specifica prospettiva, che, per molti versi, richiama il risalente approccio giurisprudenziale alle norme statali (a vario titolo) “cedevoli”, individuando, in questo caso, una sorta di “cedevolezza sopravvenuta” della disciplina statale, l’esercizio della nuova potestà legislativa “residuale” in materia di turismo da parte delle Regioni sembra assumere, in realtà, una impostazione ed una valenza del tutto peculiari.

Alla luce degli esiti della ricostruzione della Corte appena considerati, infatti, la potestà in parola non poggerebbe su di un regime di “esclusività”/separazione, così come sembrava riconoscere il contenuto dell’accordo sottoscritto in sede di Conferenza StatoRegioni (sulla base di una lettura tutt’altro che peregrina e, sotto molti aspetti, condivisibile dell’art. 117 Cost. novellato), poi recepito integralmente dal DPCM adottato nel 2002 (sulla base della delega prevista dalla legge n. 135/01) e specificamente richiamato nelle argomentazioni della Corte quale accordo «nel cui ambito, tra l’altro, si è espressamente concordato tra le parti che il “turismo è materia di esclusiva competenza regionale”».

La potestà legislativa in questione poggerebbe, piuttosto, sulla espressa volontà politica delle Regioni di esercitare in concreto tale competenza, sulla base delle “attribuzioni di cui ritengano di essere titolari”, e senza che ciò faccia venire automaticamente meno né la disciplina vigente in ambito extraregionale, né, ben più significativamente, la funzione dello Stato di garantire la continuità e, soprattutto, l’“unità di fondo” della disciplina stessa.

Su tali presupposti, tra l’altro, ciascuna Regione, nonostante la propria competenza “piena”, avrebbe potuto anche non volere, o non ritenere opportuno, esercitare le attribuzioni in materia, o, magari avrebbe potuto esercitare le proprie prerogative esclusivamente su taluni specifici ambiti e non su altri, lasciando impregiudicato tutto quanto non espressamente disciplinato dalla propria legislazione e, soprattutto, rafforzando in tal modo la presunzione e la concreta prospettiva di una disciplina del turismo poggiante, fondamentalmente, su di una base normativa “unitaria” (rectius: di derivazione statale) e solo in parte differenziata su base regionale, secondo una logica che sembra implicare più un “riparto” che un autonomo esercizio della competenza in questione da parte delle Regioni stesse.

In altre parole, comincia a delinearsi, nella giurisprudenza costituzionale, un orientamento che tende a considerare la potestà legislativa regionale in materia di turismo, per un verso, “piena” (in quanto “residuale”), ancorché non esclusiva, né “separata” rispetto alle competenze statali124, ovvero rivolta a disciplinare, fondamentalmente, tutte le funzioni di programmazione, di promozione e di regolazione del settore riconducibili alla materia “turismo” senza essere più sottoposta ai principi fondamentali di derivazione statale, e, per l’altro, per così dire, “condizionata”, in quanto affidata alla volontà politica delle Regioni di intervenire (o non intervenire) legislativamente nel settore, e, soprattutto, perché vincolata al riconoscimento implicito di un perdurante ruolo dello Stato nella disciplina del turismo rinvenibile sia nella salvaguardia del principio di continuità dell’ordinamento, così come espressamente rilevato dalla Corte nella sentenza de qua, sia nell’implicita esigenza (per così dire, “storicamente” affermatasi nel nostro ordinamento) di tutelare taluni interessi che difficilmente potrebbero essere soddisfatti in maniera coerente ed efficace a livello regionale (come, ad esempio, nel caso della promozione dell’offerta turistica italiana all’estero), e che né formalmente, né sostanzialmente sarebbero venuti meno con la riforma costituzionale del 2001.