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La tutela del turismo nella giurisprudenza costituzionale

di Fabio Frisenda
Università degli Studi “Roma Tre”
Dipartimento di Giurisprudenza
Corso di Laurea in Giurisprudenza
Tesi di Laurea in Diritto Costituzionale
Relatore: Chiar.mo Prof. Alfonso Celotto
Anno Accademico 2015 - 2016

2.5 - L’assetto normativo del turismo dopo il 2001

La riforma del Titolo V della Costituzione, avviata pochi anni dopo quella, di certo di non secondaria importanza del 1999, da un lato, e l’introduzione (con legge ordinaria) del c.d. “federalismo amministrativo” ad opera delle “leggi Bassanini”, dall’altro, ha segnato, come noto, una svolta netta (quantomeno sul piano formale) nell’evoluzione dell’assetto regionale e del rapporto tra Stato ed autonomie, sia pure nell’ambito di una trasformazione (ed attuazione) del nostro regionalismo complessivamente “incerta” ed in perenne ridefinizione, soprattutto sotto il profilo della individuazione degli obiettivi “di sistema” da perseguire (la programmazione, la “via italiana” al decentramento ed all’autonomia regionale, lo snellimento e l’efficienza della “macchina statale”, il “federalismo” etc.) e, non a caso, indicata, in questa specifica fase, come “regionalismo della transizione”.

In ogni caso, la riforma costituzionale entrata in vigore nel 2001, che ha investito l’intero assetto delle autonomie, a cominciare dall’aspetto certamente non centrale, ma per molti versi “evocativo”, se non proprio “simbolico”99, dell’articolazione della Repubblica in enti equiordinati, ha trovato nella radicale ridefinizione del riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni certamente uno dei cardini, se non la vera e propria “chiave di volta”, dell’intera riforma (che pure contiene numerosi altri elementi degni di rilievo sotto il profilo del mutamento complessivo del nostro regionalismo).

La modifica dell’art. 117 Cost., infatti, ha determinato, come noto, il sostanziale ribaltamento del criterio di attribuzione delle competenze legislative, prevedendo, in estrema sintesi, l’enumerazione di diciassette materie assegnate alla competenza esclusiva statale, con la contestuale perdita, da parte dello Stato stesso, della previgente competenza legislativa residuale, nonché di diciannove materie di legislazione “concorrente”, cui si aggiunge, a “chiusura” del riparto di competenze, la previsione della potestà “residuale” delle Regioni in tutte le materie non ricomprese negli elenchi di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 117 Cost. stesso.

In questo quadro generale, la materia turismo e industria alberghiera, originariamente inclusa nell’elenco delle materie di competenza “concorrente”, così come si è già avuto modo di evidenziare, non essendo stata inserita tra le materie di potestà legislativa esclusiva dello Stato, né nel nuovo elenco delle competenze “concorrenti”, è stata ricondotta, conseguentemente, alla potestà “residuale”, e ricompresa, quindi, tra le “materie innominate” (sempre che si possa, effettivamente, parlare di distinte ed autonome “materie innominate” e non di una generica “residualità legislativa” da riconoscere in capo all’ente regionale senza una specifica individuazione delle materie stesse) configurabili, in astratto, come competenza, per così dire, “tendenzialmente esclusiva” delle Regioni, ex art. 117, novellato, ovvero come competenze, in qualche modo, simili alla potestà “primaria” già riconosciuta in capo alle Regioni a Statuto speciale, soprattutto perché non più soggette al rispetto dei principi fondamentali previsti dalle leggi statali.

Tutto ciò ha, infatti, spinto la Corte costituzionale a parlare, in taluni casi, di potestà legislativa regionale “residuale e dunque piena” nonché, in altre circostanze, di competenza “esclusiva” delle Regioni.

La stessa Corte, tuttavia, in numerose altre decisioni aventi ad oggetto materie ricondotte alla potestà “residuale” (ivi compreso, in particolare, il turismo e l’industria alberghiera, così come si avrà modo di approfondire meglio in seguito), ha poi, di fatto, ridimensionato, per così dire, questa “apertura” nei confronti della nuova (e più intensa) autonomia legislativa regionale, sia limitando “in orizzontale” la potestà “residuale” stessa (soprattutto con la legittimazione di ampi ed incisivi interventi normativi dello Stato nelle materie c.d. “trasversali”), sia rendendo più “flessibile” il riparto di competenze “per materie” con l’applicazione di criteri lato sensu “funzionali” (come quello della prevalenza, in primis, in relazione ad interessi da tutelare o a fini da perseguire) legati più al concreto e contingente bilanciamento di interessi e valori che al “riparto materiale” (astrattamente) previsto dal testo costituzionale.

D’altro canto, la potestà legislativa regionale di tipo “residuale” è soggetta, in generale, a limiti costituzionali che appaiono idonei ad incidere direttamente sulle materie ad essa ricondotte, limiti che finiscono col rendere tali materie tutt’altro che “impermeabili” all’intervento della legislazione statale finalizzata a soddisfare le istanze (fondamentalmente di natura “unitaria”) sottese a quei limiti stessi.

Si pensi, in primo luogo ai vincoli previsti dal primo comma dell’art. 117 Cost., inerenti il “rispetto della Costituzione”, a cui può essere ricondotto, tra l’altro, il rispetto dei “principi generali dell’ordinamento”102 (a cominciare da quelli di unità e indivisibilità della Repubblica di cui all’art. 5 Cost., o di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.), nonché ai “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.

Lo stesso “interesse nazionale”, formalmente cancellato dal testo costituzionale riformato, e ritenuto dalla stessa Consulta non più gravante sulla potestà legislativa regionale né come limite di legittimità, né come limite di merito, sembra perdurare nell’ordinamento, anche dopo la riforma costituzionale del 2001, quale irrinunciabile esigenza di sistema (e, quindi, in sostanza, come ulteriore limite implicito alla legislazione regionale anche di tipo “residuale”) legata, in particolare, oltre che ai titoli di intervento “trasversale” dello Stato, soprattutto all’unità giuridica ed economica dell’ordinamento.

In realtà, anche alla luce di tale contesto generale, il “passaggio” della materia turismo e industria alberghiera alla potestà legislativa di tipo “residuale” potrebbe aver comportato conseguenze ancora più articolate e complesse di quelle che potrebbero apparire, prima facie, in relazione alla mera ridefinizione dei limiti “in verticale” a cui sarebbe soggetto l’esercizio della potestà in parola, non solo per l’intrinseca difficoltà a definire nettamente l’estensione “orizzontale” (che potrebbe, tra l’altro, non coincidere con quella riconosciuta precedentemente alla stessa materia), e per i limiti comuni a tutte le competenze “residuali”, ma anche per le peculiarità che connotano specificamente la materia turismo e industria alberghiera soprattutto in ordine alla natura ed alla eterogeneità degli interessi, nonché ai molteplici ambiti disciplinari (la ricettività, le agenzie di viaggio, i servizi connessi alle attività turistiche, la promozione del turismo nazionale e locale, le professioni turistiche, etc.) ad essa riconducibili.

Nel nuovo contesto ordinamentale, infatti, da un lato, potrebbe essere non chiara la natura e la portata di taluni interessi (magari destinati ad intrecciarsi inestricabilmente con altri interessi contigui o sovrapposti), o l’individuazione degli specifici ambiti disciplinari in cui si articola, specificamente, la materia in questione, e, dall’altro, potrebbe risultare non del tutto coerente o adeguato, rispetto al mutato riparto complessivo delle competenze, l’assetto delle funzioni amministrative afferenti al settore turistico “ereditato” dall’ordinamento previgente, col conseguente pregiudizio per l’esercizio della “nuova” potestà legislativa in materia.

Anche perché, sotto questo specifico profilo, non si è voluto dare attuazione alla riforma costituzionale con un nuovo trasferimento di funzioni (che avrebbe potuto contribuire ad innovare ed, in qualche modo, a chiarire il “contenuto” delle materie stesse), ma solo con una mera “ricognizione dei principi fondamentali”, riferita, tra l’altro, a tre sole materie di competenza “concorrente” e delegata (secondo un’impostazione per molti versi discutibile) dalla c.d. “Legge La Loggia” al Governo.

A tale riguardo, è stato rilevato, tuttavia, come le materie già espressamente contemplate dall’originario art. 117 Cost. e, poi, in qualche modo, “ancorate” a funzioni ed interessi (oltre che, ovviamente, a competenze) di livello regionale, come nel caso, per l’appunto, della materia de qua, possano essere individuate in maniera sufficientemente agevole e chiara utilizzando il criterio “storico-normativo” (pur senza voler trascurare la portata e la spinta innovativa della riforma costituzionale del 2001), o facendo riferimento, per così dire, “più empiricamente” al “settore nel quale è presente una organizzazione amministrativa regionale, la cui disciplina è rimessa alla stessa Regione”, sempre che il c.d. “parallelismo delle funzioni”, inteso in senso lato, possa essere considerato valido, in qualche misura, anche dopo la riforma del Titolo V.

Ad ogni modo, per cogliere e valorizzare la nuova potestà legislativa regionale in materia di turismo, alla luce di una lettura, per così dire, particolarmente “sensibile” all’istanza regionalista, parte della dottrina sembrava aver (inizialmente) ridimensionato la problematica relativa alla definizione della materia finalizzata alla individuazione di ogni specifico ambito affidato alla legislazione regionale, ponendo l’accento sulla netta svolta determinata dalla riforma del riparto di competenze legislative ed evidenziando, in particolare, come “il turismo non sia più materia schiacciata e soffocata dalle competenze statali”, ma si inserisca “nell’ambito di un’ampia competenza regionale” che non richiede più “la spasmodica ricerca dei confini di questa o quella materia”, dal momento che l’onere dell’individuazione dei titoli che, di volta in volta, avrebbero potuto legittimare l’intervento dello Stato nel settore turistico sarebbe spettato a quest’ultimo.

In realtà, l’interpretazione poi divenuta prevalente ed il concreto esercizio della nuova competenza regionale in materia di turismo hanno ampiamente disatteso questa (pur legittima, oltre che, per molti versi, condivisibile) lettura estensiva della competenza azionabile in concreto (oltre che rivendicabile in astratto) dalle Regioni, mostrando come dovesse ritenersi tutt’altro che scontata la definizione dei nuovi contenuti, oltre a (o diversamente da) quelli già riconosciuti, e degli eventuali “nuovi interessi” pubblici specificamente riconducibili al turismo, soprattutto se considerati alla luce dei rapporti e delle peculiari esigenze di coordinamento tra fonti statali e fonti regionali.

Sono apparse, infatti, per molti aspetti emblematiche, da un lato, le vicende connesse all’approvazione (ed alla successiva attuazione) della legge n. 135/01, con cui si è voluta riformare la disciplina-quadro del settore turistico (abrogando la legge n. 217/83), e, dall’altro, la complessiva incidenza della giurisprudenza costituzionale sull’esercizio e (più o meno indirettamente) sulla concreta definizione della competenza regionale in materia di turismo, a cominciare dalla sentenza n. 197/03, avente ad oggetto proprio la suddetta legge n. 135/01, con la quale è stata, per così dire, “inaugurata”, dopo la modifica del Titolo V, la ricca ed articolata giurisprudenza sulla disciplina in materia e, più ampiamente, in “tema” di turismo.

La legge n. 135/01, in particolare, entrata in vigore solo pochi mesi prima della legge costituzionale n. 3/01, si fondava sul presupposto che la competenza in materia di turismo e industria alberghiera fosse ancora quella prevista dall’originario art. 117 Cost., e sulla base di ciò riproponeva una logica marcatamente centralista che intendeva ancora restrittivamente, sotto molti profili, l’autonomia regionale, anche se in una prospettiva (per certi versi, “enfatizzata”) di “leale collaborazione” tra livelli di governo e di valorizzazione di taluni strumenti di cooperazione “in orizzontale” tra soggetti pubblici e privati.

Tale legge, in effetti, non si limitava a fissare una “cornice” di principi generali e di strumenti di mero coordinamento in senso stretto, ma individuava anche strumenti e funzioni statali che, a parte la promozione unitaria del turismo all’estero, apparivano poco giustificabili, anche alla luce dell’impianto costituzionale non ancora modificato, e finivano con l’inquadrare il turismo come espressione di interessi prevalentemente unitari e, solo marginalmente, potenziale oggetto di indirizzi e modelli di disciplina sostanzialmente regionali.

Venivano, infatti, fortemente accentrati (dalla legge n. 135/01) i principali strumenti finanziari finalizzati al sostegno ed alla promozione del turismo, quali il Fondo di cofinanziamento dell’offerta turistica (art. 6, successivamente modificato dalla legge n. 289/02) ed il Fondo di rotazione per il prestito e il risparmio turistico (art. 10), accentuando la perdurante (e mai risolta) asimmetria tra competenze normative ed autonomia finanziaria sostanziale, ma, soprattutto, si delegava al Governo l’adozione (entro tre mesi dall’entrata in vigore della legge stessa e secondo le modalità già previste dall’art. 44 del d. lgs. n. 112/98) di un D.P.C.M., sia pure sulla base di un’intesa da approvare in sede di Conferenza Stato-Regioni, per determinare «i principi e gli obiettivi per la valorizzazione e lo sviluppo del sistema turistico» (art. 2, co. 4), secondo un’impostazione discutibile o, quantomeno, problematica, tanto sotto il profilo formale (in ordine all’adozione di un atto regolamentare per fissare principi ed obiettivi della legislazione in materia), quanto sotto quello sostanziale (in riferimento, soprattutto, al conseguente accentramento degli interventi normativi e delle politiche di settore).

L’autorizzazione ad adottare il summenzionato D.P.C.M. (sulla base del secondo comma dell’art. 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400), tra l’altro, prevista nelle more dell’approvazione definitiva della legge cost. n. 3/01, ed esercitata dopo l’entrata in vigore della modifica costituzionale, oltre a riproporre i dubbi relativi alla possibilità di utilizzare lo strumento regolamentare per individuare e disciplinare i principi fondamentali delle materie di competenza concorrente (dubbi già avanzati in occasione del D.P.R. n. 112/98, del quale la legge n. 135/01 richiama espressamente l’art. 44), è risultata in palese contrasto col nuovo riparto di competenze normative tra Stato e Regioni, dal momento che lo Stato conservava la potestà regolamentare nelle sole materie di sua competenza esclusiva (art. 117, co. 6 Cost.) e, quindi, non in materia di turismo.

Nonostante tutto ciò, il D.P.C.M. de quo è stato emanato il 13 settembre del 2002 seguendo un approccio, per così dire, “informale” e “pragmatico” alle delicate problematiche (di natura formale e sostanziale) ed alle esigenze (essenzialmente, di rispetto del nuovo impianto costituzionale, di raccordo tra livelli istituzionali e di tenuta del comparto) sottostanti alla sua adozione. Il Governo, infatti, prendendo, in qualche modo, atto del mutato contesto costituzionale, ma non traendone fino in fondo tutte le possibili conseguenze (ovvero, in primis, la sopravvenuta incompetenza del Governo ad adottare un regolamento), si è limitato a recepire nel summenzionato D.P.C.M. integralmente, e senza alcuna modifica, il contenuto dell’accordo precedentemente raggiunto in sede di Conferenza Stato-Regioni.

Ad ogni modo, sotto il profilo del nuovo inquadramento costituzionale del turismo derivante dalla legge cost. n. 3/01, il D.P.C.M. del 2002, in particolare, se, da un lato, sembra cogliere la necessità di salvaguardare taluni (forse irrinunciabili) interessi unitari del comparto turistico, dall’altro evidenzia come siffatte esigenze di unitarietà possano essere garantite in sede di raccordo interregionale (le intese previste dall’art. 1 per determinare “i principi per l'armonizzazione, la valorizzazione e lo sviluppo del sistema turistico” non contemplano, infatti, il coinvolgimento dello Stato), indicando così una possibile (e legittima, se non proprio costituzionalmente necessitata) declinazione della nuova potestà legislativa regionale intesa come competenza “piena” e soggetta ai soli limiti generali precedentemente richiamati.

In realtà i successivi sviluppi hanno mostrato, anche in questo caso, come, per numerosi e rilevanti profili della disciplina del turismo, a fronte del rafforzamento generale della potestà legislativa regionale prefigurato dalla riforma del Titolo V, la legislazione statale non solo sia risultata sempre assai rilevante, anche in forza della legittimazione indirettamente riconosciuta dalla Corte costituzionale, così come si avrà modo di sottolineare, ma abbia anche finito col “confinare”, in ultima istanza, la legislazione regionale ai soli ambiti materiali “che esigono uno sviluppo ed una articolazione sul piano dell’attività amministrativa”, analogamente a quanto successo per le altre competenze regionali di tipo “residuale”.

Ed infatti, anche quando le Regioni hanno mostrato un più marcato dinamismo a livello di interventi legislativi, così come accaduto negli ultimissimi anni, in particolare in tema di attività ricettive, non si sono affermati veri e propri “modelli regionali” di disciplina, ma solo interventi circoscritti ed, in qualche modo, disorganici, inerenti soprattutto le specifiche forme e modalità in cui possono essere organizzate le attività turistiche.