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La tutela del turismo nella giurisprudenza costituzionale

di Fabio Frisenda
Università degli Studi “Roma Tre”
Dipartimento di Giurisprudenza
Corso di Laurea in Giurisprudenza
Tesi di Laurea in Diritto Costituzionale
Relatore: Chiar.mo Prof. Alfonso Celotto
Anno Accademico 2015 - 2016

1.5 - La concorrenza

La riforma del Titolo V, Parte II, della Costituzione ha espressamente attribuito alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la “tutela della concorrenza” (art. 117, c. 2, lett. e). L’esplicita menzione nel testo costituzionale novellato della materia “tutela della concorrenza” offre l’occasione, da un lato, per riflettere sul ruolo che il principio della libertà di concorrenza ha assunto nella nostra “Costituzione economica”; dall’altro, per chiarire l’impatto che la riserva allo Stato di tale materia può avere nella dinamica di un ordinamento a forte vocazione regionalista.

In questa riflessione si procederà, quindi, partitamente, nella prospettiva di ordine generale del rinnovato rapporto tra il principio della libertà di concorrenza e la “decisione politica fondamentale” del nostro ordinamento in materia di rapporti economici ed in quella, più prettamente attinente all’ambito materiale della riforma del Titolo V, del sistema delle fonti chiamate, dal nuovo riparto di competenze, a disciplinare la materia “tutela della concorrenza”.

In via del tutto preliminare giova osservare che solo apparentemente si tratta di due prospettive estranee l’una all’altra e questo per il motivo che, al fine di una corretta esegesi del testo costituzionale, il piano del fondamento costituzionale e quello del riparto delle competenze legislative risultano connessi dalla necessità logico-concettuale di ricondurre il dibattito sulla tutela della concorrenza in un “alveo tipicamente costituzionale”. Infatti, solo un’esatta individuazione della valenza costituzionale della libertà di concorrenza consente di apprezzare le ragioni che devono presiedere alla lettura del sistema delle fonti in questa materia e, specularmente, solo un’attenta analisi del riparto di competenze legislative permette di capire quale sia l’attuale ruolo del principio di concorrenza nel nostro ordine pubblico economico di rango costituzionale. Secondo la Corte, «la nozione di “principio fondamentale” non ha e non può avere carattere di rigidità e di universalità, perchè le materie hanno diversi livelli di definizione che possono mutare nel tempo».

Tutto ciò implica che l’ampiezza e l’area di operatività dei principi fondamentali non possono essere individuate in modo valido per ogni possibile tipologia di disciplina normativa.

Questa interpretazione conferma la flessibilità del riparto proprio perchè non predetermina rigidamente l’ambito di operatività dei principi fondamentali.

Sul punto del grado di definizione dei principi fondamentali la Corte ha inoltre precisato che la legge statale può indicare criteri e obiettivi ma non può imporre nel dettaglio gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi.

Vero è che non ha senso attendersi chiarimenti definitivi in merito alla distinzione fra principio e dettaglio che resta inevitabilmente controversa anche dopo la riforma del 2001. Prova ne sia che attorno ad essa ruotano molte decisioni costituzionali, nella maggior parte dei casi promosse dalle Regioni che accusano di eccessivo dettaglio le disposizioni statali.

Il profilo dell’elasticità si manifesta nelle materie concorrenti in altri due modi. Il primo comprende la presenza degli interessi unitari, in forza dei quali le valutazioni del giudice delle leggi non si incentrano tanto sul grado di analiticità dei principi fondamentali, quanto sulla conformità della disciplina agli interessi in campo.

Il secondo, invece, corrisponde alle norme cedevoli che la giurisprudenza costituzionale collega al principio di sussidiarietà, ossia ammette norme legislative cedevoli in materia concorrente per la disciplina di funzioni regionali che lo Stato attragga a sè con il meccanismo della «chiamata in sussidiarietà».

D’altro canto, il valore ed il significato del mantenimento in capo allo Stato della competenza in materia di concorrenza fornisce la chiave di volta sia per una corretta individuazione dei tratti distintivi la materia “tutela della concorrenza” rilevante ai sensi della lett. e), sia per una corretta delimitazione degli interventi legislativi statali dalla medesima giustificati ed autorizzati, soprattutto nel delicato ed articolato rapporto con la novellata competenza legislativa delle Regioni. Sotto il primo angolo visuale, relativamente agli elementi strettamente inerenti la materia “tutela della concorrenza”, si osserva, in primo luogo, che la “tutela della concorrenza” è una competenza costruita finalisticamente, in funzione, cioè, dello scopo e non dell’oggetto.

Tale carattere finalistico, se da un lato, come vedremo nel prosieguo, consente al legislatore statale un vasto ambito materiale di incidenza, dall’altro porta a ritenere che, sulla base del titolo competenziale intersettoriale fornito dalla lett. e), potranno legittimamente essere adottate con legge dello Stato solo quelle disposizioni strettamente funzionali al mantenimento o alla creazione-promozione della concorrenza nei vari settori economici, molti dei quali affidati, per la disciplina degli altri profili, alla potestà legislativa regionale. Ne deriva l’esclusione, pena la loro illegittimità costituzionale per invasione della sfera di competenza regionale, di interventi legislativi statali solo indirettamente e debolmente legati alla tutela della concorrenza e genericamente legati ad esigenze di regolamentazione dei diversi settori della vita economica.

D’altronde, affermare la necessità che gli interventi legislativi statali si limitino in maniera pressoché esclusiva a quelli teleologicamente preordinati alla concorrenzialità dei mercati, non significa ritenere costituzionalmente legittimi solo quelli finalizzati al mantenimento della concorrenza in mercati ad essa già informati. Come noto, infatti, la disciplina legislativa per la tutela pubblicistica della concorrenza include sia la normativa antitrust, diretta a garantire, attraverso la repressione della pratiche monopolistiche, il mantenimento della concorrenza in mercati già liberalizzati, sia interventi di regolazione “economica” volti a sostituire, nei mercati ove non è possibile la concorrenza tra più operatori (ad esempio in alcuni servizi di pubblica utilità per il carattere non economicamente duplicabile delle infrastrutture di rete), la “concorrenza sul mercato” con meccanismi di “concorrenza per il mercato”. Sembra, in altri termini, che l’espressione “tutela della concorrenza” di cui alla lett. e) abbia non solo una valenza statica, ma anche una valenza dinamica: che allo Stato, cioè, continui legittimamente a spettare non solo la competenza per interventi a difesa del mantenimento delle condizioni di concorrenzialità in mercati già liberalizzati (così, ad esempio, soprattutto nel caso dei settori del commercio, dell’industria e del turismo), ma anche interventi di promozione della concorrenza laddove questa fatica ad affermarsi per la presenza di monopoli naturali (così nel caso della produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, del trasporto locale e dell’ordinamento della comunicazione). In terzo luogo, così estensivamente ricostruito l’ambito materiale della “tutela della concorrenza”, vale la pena rilevare, sempre nel tentativo di meglio definirne i tratti distintivi e fondativi, che nel dibattito dottrinale in corso la concorrenza è stata qualificata come “una competenza ovvero una finalità trasversale rispetto a tutti i settori della vita economica”, in grado cioè di consentire allo Stato di travalicare i rigidi confini attribuitigli dalla riforma ed occupare, addirittura, ambiti altrimenti riservati alla legislazione regionale.

La concorrenza diviene, cioè, in questa prospettiva, più che una materia in senso stretto, una clausola generale di competenza statale idonea, in virtù del suo necessitato carattere intersettoriale, ad incidere su materie assegnate dal legislatore della revisione alla competenza legislativa esclusiva delle Regioni (si pensi ai settori sopra evidenziati dell’industria, del commercio, del trasporto locale, etc.).

Competenza regionale che, peraltro, proprio per l’esistenza di siffatte materie statali “trasversali”, diviene preferibile definire residuale. Si è, in proposito, parlato di “titoli di legittimazione sostanzialmente trasversali”, che si traducono in occasioni per lo Stato di condizionare la legislazione regionale nelle materie non espressamente enumerate. In questo modo la concorrenza (e con essa gli altri titoli competenziali trasversali) si viene a configurare come una valvola che consente forme di mobilità del riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni, in un sistema in cui è vero che il potere centrale ha perso la competenza generale, ma in cui è altrettanto vero che il medesimo è, comunque, preposto alla cura degli interessi nazionali ed unitari, di cui la concorrenza e le altre materie di competenza statale costituiscono significative, anche se tassative, esemplificazioni. Sul punto sembra, peraltro, opportuno dar conto che la questione è stata affrontata anche dalla Corte costituzionale, la quale è parsa aderire all’opinione dottrinale dell’esistenza, tra le materie attribuite al legislatore statale, di competenze finalistiche trasversali.

La Consulta, infatti, nella sentenza 282/2002, ha ammesso, con un ragionamento riferito ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, ma agevolmente estensibile anche alla tutela della concorrenza, che “non si tratta di una “materia” in senso stretto, ma di una competenza del legislatore statale idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare […]”; nella sentenza 407/2002 ha, quindi, espressamente parlato, con riguardo alla materia “tutela dell’ambiente”, di “materia trasversale”, la quale, lungi dall’identificare “una “materia” in senso tecnico, […] configurabile come sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata, investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze”.

Passando ora all’analisi sistematica del profilo più marcatamente attinente i rapporti tra legislatore statale e legislatori regionali con riferimento precipuo alla “tutela della concorrenza” nei vari settori della vita economica, non si può non tenere conto, in primis, dei nuovi principi che informano il riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni. Come noto, la novella del Titolo V accoglie il criterio, tipico dei modelli di federalismo “duale”, della rigida separazione delle competenze, attraverso l’espressa previsione, al comma 2, delle materie attribuite alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, al comma 3 delle materie spettanti alla potestà concorrente delle Regioni e, al comma 4, mediante il cd. capovolgimento dell’art. 117 previgente, della clausola di residualità a favore delle Regioni “per ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”. Per l’aspetto che qui interessa, pare opportuno osservare che, a fronte dell’attribuzione in via pressoché esclusiva allo Stato della materia “tutela della concorrenza”, innumerevoli “settori” rilevanti per il governo dell’economia e variamente interferenti con la concorrenzialità dei mercati di riferimento sono, invece, attribuiti alla potestà legislativa regionale sia essa a carattere concorrente (si pensi ad esempio ai “porti e aeroporti civili”, alle “grandi reti di trasporto e di navigazione”, alla “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”, all’“ordinamento della comunicazione”, al “sostegno all’innovazione per i settori produttivi”), sia essa a carattere esclusivo-residuale (come nel caso del commercio, dell’industria, del turismo, nonché dell’energia e del trasporto per i profili di interesse locale). Questa vasta “regionalizzazione” della competenza legislativa su materie di carattere strettamente economico e la conseguente moltiplicazione dei centri di produzione normativa a vario titolo incidenti sulla materia “tutela della concorrenza” ha sollevato in dottrina forti timori per le sorti della concorrenzialità e della competitività del mercato nazionale, ove a livello regionale si introducano disposizioni normative di ostacolo al libero dispiegarsi del gioco concorrenziale. Si è, quindi, proposto, in una prospettiva de iure condendo, un sistema di monitoraggio e di verifica preventiva da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato della compatibilità della legislazione regionale di settore con i principi posti a tutela della concorrenza o una legge statale di orientamento in senso pro concorrenziale della normazione regionale, con la espressa previsione degli interventi da evitare (ingiustificate barriere di accesso al mercato, frammentazioni e segmentazioni dei mercati, trattamento non uniforme e discriminatorio degli operatori economici) e di quelli da incentivare (forme di semplificazione della legislazione e delle procedure essenziali allo sviluppo della competizione economica).